La guerra

Di Luigi Fasolin

Bombardamenti in Polesine
 In talune sere si udiva il lontano cupo e persistente  rombo delle “cicogne”. Erano queste: aerei da collegamento e da ricognizione di fabbricazione tedesca. Così chiamate dal loro nome in tedesco “storch”, cicogna appunto.

La guerra

La mia nascita, nel luglio del 1941, fu evento  benefico per la famiglia.   Mio padre, ragazzo del ’99 già partecipe alla prima guerra mondiale, era stato richiamato alle armi. Orbene una legge inerente al servizio militare sanciva che chi aveva quattro figli aveva diritto al congedo. E così, dopo la mia nascita – il quarto per l’appunto – il papà ritornò con sollievo per tutti, parenti compresi, stante l’onere di mandare avanti la gravosa quotidianità famigliare. 

Ponte sull’Adige – Località Boara Polesine – Aprile 1945

1945: Quello che rimane del campanile di Lusia

Ovviamente di quei primissimi anni non ricordo nulla. Muovendo da qualche immagine in memoria mi rifaccio a racconti di famiglia ed alla storia locale. Ho motivo per ritenere che la guerra  fosse percepita solo nelle famiglie ove un giovane era stato chiamato a servire la patria. La guerra era lontana, la popolazione anziana aveva vissuto altre guerre, le comunicazioni erano rare, le notizie che arrivavano di certo parziali e distorte dal potere centrale e dai fascisti locali. La guerra, quella come le altre, quasi un fatto ineluttabile, certo portatore di distruzioni e di lutti. Per l’umile popolo degli ultimi: rassegnazione, obbedienza,  speranza nella provvidenza.  

Ma questa  fu guerra mondiale dallo svolgimento sconvolgente prima e travolgente poi.  Mai era avvenuto che un alleato divenisse repentinamente nemico. L’8 settembre del 1943 il maresciallo Badoglio, capo del governo, proclamava di aver concordato l’armistizio con gli anglo-americani. Da qui lo sconvolgimento che diventa caos  e disordine.  L’esercito tutto, in Italia e ovunque, è allo sbando. Specie al Sud i militari passano con gli alleati. Mio suocero Antonio risalirà l’Italia, da Brindisi, al seguito ed al servizio di truppe inglesi. L’alleato di ieri è il nemico di oggi ed è un nemico già presente nel territorio  ed ora con forze crescenti, risentite per il tradimento,  arrabbiate, sospettose. Con l’armistizio, si riteneva, prossima la fine delle ostilità per l’Italia e invece l’esercito tedesco occupa Roma, presidia tutto il centro nord, pone il baluardo difensivo della cosiddetta “linea gotica”.  La guerra continua e diventa cruenta. E’ poi guerra civile perché a seguito del rallentamento dell’avanzata alleata i nazifascisti del territorio rinvigoriscono e perseguono rivalse e vendette sui nuclei partigiani,  già  attivi in sabotaggi ed attentati.  E’ guerra civile, sporca e feroce. Passeranno ancora venti mesi  per la liberazione.

In terra polesana la guerra diventa realtà sconvolgente   a far tempo dalla tarda primavera 1944. Ero piccolo, ascoltavo i racconti dei grandi, guardavo i loro volti seri, gli anziani pregavano, gli esagitati davano in esternazioni di ribellione, i giovani aderivano alla partigianeria, i fascisti spinti dai caporioni locali spadroneggiavano.

Nel medio Polesine i segni dell’avvicinarsi delle ostilità belliche vennero dall’alto. In talune sere si udiva il lontano cupo e persistente  rombo delle “cicogne”. Erano queste: aerei da collegamento e da ricognizione di fabbricazione tedesca. Così chiamate dal loro nome in tedesco “storch”, cicogna appunto. Ne esistevano varie versioni tra cui una idonea al bombardamento. Volavano a sud allo scopo di ostacolare l’avanzata alleata perciò bombardavano le vie di comunicazione: ponti, strade, ferrovie,  presidi di forze della resistenza, di rado centri abitati. Erano visibili a molta distanza i razzi traccianti lanciati per illuminare il territorio sottostante. Dopo i segnali dal cielo arrivarono allarmanti voci di terra che narravano di rastrellamenti, di eccidi, di morti violente di innocenti: vecchi, bambini, donne, sacerdoti.   Gli eventi tragici divennero più frequenti  e vicini.  Le versioni erano  incerte,  discordanti, di parte. Conservo  ricordo di ore, forse notti intere, passate in rifugio. Nel vicinato ve ne erano  due: uno piccolo costruito in fondo al fosso del nostro orto, un altro, molto più capiente e meglio mimetizzato, nel fosso di un podere – detto el besevejo – isolato, lontano, raggiungibile da carreggiata che partiva dalla strada del cimitero. Era ben mimetizzato con terrapieno sopra uno spesso strato di frasche sostenute da robusti pali con tavole trasversali a guisa di travi.  Il fosso era corto. L’alveo era ampio, poco profondo, ricoperto di paglia. La vegetazione attorno rigogliosa essendo quel podere poco curato, Si accedeva da passaggio retrostante un grosso salice. Si temevano rastrellamenti, catture, vendette,  ma anche bombardamenti.  La gente  del vicinato si rifugiava proprio lì. Per prime le  mamme con bambini, poi le nonne e le donne, quindi i ragazzi e gli anziani. I vecchi per indolenza o per infermità non andavano al rifugio se non forzatamente portativi. Mio fratello Francesco, allora quindicenne, caricava mia nonna Beatrice, che imprecava agitata e ribelle,  sulla carriola per condurla con non poca fatica al rifugio. La nonna si tranquillizzava nel  constatare la presenza lì di coetanee vicine di casa: la Carolina, l’Alice, l’Elvira, ed altre. Gli adulti non c’erano perché lontani, in guerra.   I giovani si cercavano, tra loro complottavano, aderivano a gruppi di resistenza o ne erano fiancheggiatori. Gli uomini, ancora in forze  con un passato  di guerra, presidiavano armati il territorio e vigilavano sul centro abitato; giacché non mancavano  malintenzionati. Le armi erano in ogni famiglia: Gaetano aveva un fucile da caccia e due pistole, di cui una era una “Beretta” e l’altra,  più grande, a tamburo. Le ricordo bene quelle armi perché Gaetano sovente le smontava per oliarle, le rimontava con cura, le riponeva nelle loro custodie ove teneva anche le  pallottole, le nascondeva. Buona guardia notturna facevano, come da indole, anche i cani abbaiando con insistenza alla percezione di rumori o di intrusi. Nondimeno erano vigili nella notte gli altri animali domestici. In quel contesto anche  rubare una gallina poteva rivelarsi impresa fatale.  

Quello che temevano per la notte avvenne per noi a sole alto, in piena estate.  Erano giorni che oltre la siepe che limitava il nostro cortile passavano piccoli gruppi di  tedeschi in ritirata: due, tre per volta, non di più. Erano molto giovani, avevano paura, avevano fame e avevano fretta. Mia mamma impietosita allungava loro un po’ di pane, qualche uovo, della frutta, da bere Quelli sorridevano riconoscenti. Sul far di un mezzogiorno  di quell’estate due tedeschi entrarono nel cortile e andarono dritti alla porta della stalla che subito aprirono. Mio padre si frappose inveendo e protestando.  Io e mia mamma eravamo nell’orto, ci nascondemmo impauriti e tremanti dietro il cumulo di pula della recente trebbiatura. Da quell’angolo vedevamo tutto.   I tre confabularono animatamente finché uno dei due, irato e spazientito,  estrasse la pistola e la puntò minacciosamente alla testa di mio padre. Non saprei dire cosa provai,   forse chiusi gli occhi e  mi aggrappai terrorizzato e silente alla mamma. Avevo quattro anni. Con l’arma puntata Gaetano nulla poté. L’altro tedesco entrò nella stalla e ne uscì con il bene più prezioso che avevamo: un grosso e forte  cavallo grigio-ferro chiamato “el cuco”.  Sempre sotto minaccia fu poi ordinato  di approntare il cavallo e di attaccarlo alla timonella (una specie di calesse a quattro ruote).  Mio padre, pallido e tremante,  eseguì. Condusse quindi il cavallo sulla strada. I tedeschi salirono sul calesse e via in direzione di Fratta. Per la strada che dopo una decina di chilometri conduce  a Lusia ove era, ed è tuttora, il ponte sull’Adige. A guerra finita si ordinò ricerca e censimento dei danni subiti onde riconoscere un indennizzo. La timonella fu trovata sulla sponda polesana dell’Adige; il ponte era stato bombardato e reso inutilizzabile.  Del ”cuco” non si seppe nulla. La mia famiglia non ebbe più un cavallo come “el cuco”.

Il 15 ottobre del 1944 è avvenuto il fatto di sangue  denominato “l’eccidio di Villamarzana” o anche “i martiri di Villamarzana”. A Villamarzana vi è un suggestivo monumento a ricordo.  Monumento laterale alla parete della “casa del barbiere”  contro la quale vennero posti e fucilati quarantadue civili; in buona parte estranei agli antefatti che precedettero la loro cattura.  Tra loro due adulti, gli altri tutti giovani o giovanissimi:  un quindicenne, alcuni sedicenni. Tanti di questi erano proprio di Villamarzana e di famiglie ben note:  Guidetti,  Munari, Dall’Aglio. Un  primo rastrellamento della Guardia Nazionale Repubblicana e  delle Brigate Nere alla ricerca dei corpi di quattro fascisti infiltratisi nella partigianeria e da questa uccisi, fu infruttuoso ma comunque luttuoso.  Non furono trovati i corpi degli uccisi né individuati,  malgrado pressanti interrogatori e torture,  gli autori del fatto di sangue. Venne quindi disposto nuovo e più ampio rastrellamento, indirizzato da infami delatori, che interessò località tra Castelguglielmo ed Arquà Polesine.  Nella notte tra il 13 ed il 14 ottobre vengono catturati 42 civili, alcuni scovati in inimmaginabili nascondigli. Gli arrestati  furono  condotti nelle carceri di Rovigo per interrogatori, torture, ricerca di informazioni utili, confronti. Pur essendovi  tra loro chi sapeva nessuno tradì.  Nella notte successiva i catturati furono trasferiti in uno stanzone al pianterreno del municipio di Villamarzana ed ivi soggetti a nuove torture. La mattina del 15 vengono condotti, a gruppi,  al muro  della casetta del barbiere e lì fucilati. I corpi    lasciati a terra sì che il gruppo successivo avesse a camminare tra i compagni morti.

L’eccidio ebbe immediata eco in tutta la popolazione. In famiglia si sapeva da giorni dei rastrellamenti  giacché il fratello Antonio, allora diciottenne, aveva amicizie tra i coetanei  partigiani e la notte delle  catture la trascorse nascosto tra cespugli sotto il ponte di Gognano. Bambino non potevo realizzare pienamente quanto accaduto. Fu un processo lento di triste comprensione cui contribuirono i racconti dei grandi e le annuali commemorazioni dell’eccidio. A queste mi portava mio padre ed io ero bambino. Vi partecipavano le più alte autorità e la popolazione tutta affranta e commossa. Dopo discorsi e testimonianze la commemorazione proseguiva in silenzioso corteo per la via del cimitero ed aveva termine davanti la cappella dei martiri. Recandomi, accompagnato dalla mamma,  al cimitero per far visita a tombe di familiari sostavo in quella cappella: mi venivano brividi, provavo pietà, avrò pure pianto.   Guardavo i ritratti incastonati nel freddo marmo e leggevo le date  di quelle brevi esistenze. L’eccidio fu uno dei più cruenti compiuti dai fascisti, stante le tante giovani vite e l’applicazione di leggi  naziste  contro altri italiani. 

Dopo il 25 aprile del 1945, data della Liberazione, lo scenario mutò rapidamente e portò piacevoli  novità: a Gognano erano arrivati reparti di colore delle truppe alleate. Avevano grandi camion “ Dodge”, distribuivano barre di cioccolato e sigarette “Camel”. La popolazione  era pervasa da contagiosa allegrezza, il futuro era roseo, si percepiva il fervore della rinascita e della ricostruzione. Vi era allegria ed una gran voglia di lavorare, di divertirsi, di stare festosamente insieme.  Ognuno si sentiva valorizzato e offriva il proprio contributo nel segno della concordia e dell’unità nazionale. Tale fu il primo governo De Gasperi, insediatosi nel dicembre con la partecipazione di tutti i partiti che avevano combattuto il fascismo. Da allora la  storia è andata avanti così come la mia esistenza in cui, ormai, mi nutro di memorie.  

Luigi Fasolin

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