Patate nostrane

Il carretto avanza lento lungo la carreggiata. Sul pianale: il versuro, una vanga, una forca, una roncola, sacchi di canapa, un mazzo di balzi, tre gamele, una sporta di giunco con: bottiglia di acqua frizzante “Alberani”, un fiaschetto impagliato con graspia, cartoccio con pan biscotto, amoli e armelini.

Davanti, sul lato sinistro, sta seduto, gambe penzoloni, mio padre Gaetano con in mano le redini ed in bocca un mozzicone spento di sigaretta. Indossa un liso gilet di fustagno con fibbie laterali e taschini; in testa il cappello di panno sformato e segnato da aloni di sudore. I pantaloni di tela, di distinte tonalità di grigio, sono tenuti da spessa cinghia di corame. Ai piedi robusti scarponcini impolverati e deformati. Scarponcini che lui stesso, anni addietro, s’è costruito. D’inverno Gaetano, per necessità, si ingegna come scarparo per noi e per i vicini. Gaetano è uomo temprato, tenace, instancabile lavoratore. In compagnia è ciarliero e burlone.

 Io sto seduto sulla traversina di dietro: gambe nude penzoloni che, ad ogni sobbalzo per le irregolarità dei solchi della carreggiata, dondolano libere.  Gaetano è assorto e silenzioso, guarda dritto avanti a sé verso i campi, io tengo lo sguardo rivolto in basso attratto dallo scorrere, sotto i piedi scalzi, dei ciuffi d’erba, dei fiori di colori diversi: il giallo del ranuncolo e del tarassaco, il violetto del trifoglio, l’azzurro della cicoria, il bianco giallo delle supete.  

            La carreggiata ha sulla destra un fosso, ora asciutto, sul cui ciglio sono, ad irregolare distanza, alberi tipici: pioppi, olmi, salici. Sulle scoscese rive: soffioni, gambi di code di cavallo, edera, rovi, ortiche. Sul ciglio opposto ceppi di platano dalle robuste radici e dai rigogliosi polloni. Al di là del fosso i tanti campi dei Merlo a formare una campagna estesa fin quasi a Villamarzana.  Sulla sinistra della carreggiata il campo, da poco mietuto, è un’ondulata e dorata stoppia con: avanzi di paglia, verdi strisce di vilucchio con fiori a campanella, camomilla,  residui di spighe, stormi di colombi.

La carreggiata inizia dalla strada del cimitero – che è una delle due vie che da Gognano porta a Villamarzana – con svolta a sinistra poco prima dei cipressi che stanno accanto alle bianche mura.  La carreggiata termina ove incrocia un’altra più frequentata carreggiata: quella che inizia da un capitello alla Madonna a Villamarzana e si inoltra tortuosamente tra siepi e campi per divenire oltre, verso nord, uno stretto sentiero tra felci e rovi.  

All’incrocio la cavalla gira a destra per un breve tratto quindi prende a sinistra per imboccare il rivale delle ”Parte”, la terra nostra.  

Il carretto ferma a metà del rivale ove è la mezzeria dei campi. Qui ad aspettarci c’è mio fratello Toni, già grande e robusto giovanotto. Mamma Rita sta per arrivare con la sua bici, marca Legnano.  

Salto giù, mi guardo attorno, porto la sporta al ramo del salice, ove è l’ombra ed un gancio per appenderla. Toni e Gaetano scaricano il versuro, staccano la cavalla, agganciano i tiratori al collare e all’attacco per il traino, Gaetano prende la cavalla per la briglia e la guida all’inizio del primo trimo. Toni solleva la stegola onde posizionare correttamente il vomere. Egli si dispone a governare il versuro; esercizio faticoso per le braccia: occorre mantenere la direzione e la giusta profondità per non tagliare i tuberi o per non far fare eccessivo sforzo all’animale.  

  Ad un cenno d’intesa Gaetano sprona la cavalla ed il campestre corteo s’avvia. Dietro dalla scura e soffice terra rivoltata emergono i gialli e grossi tuberi delle patate nostrane.  La Rita si china per la raccolta, io la precedo e con le manine frugo nel profondo della terra morbida alla ricerca dei tuberi nascosti. In breve si riempie la prima, la seconda, la terza gamela; la Rita si allontana per andare a svuotarle nel sacco, io continuo a frugare ed a formare mucchietti.  In mucchietti a parte metto le patate di scarto: quelle più piccole, quelle tagliate dal vomere, quelle dalla buccia verdognola per essere cresciute in superficie. Lo scarto verrà raccolto a parte. Lo scarto non verrà buttato ma servirà, dopo cottura, per il maco del maiale.

  Lavoro con lena. Sono in ginocchio ed in breve le mani, gli avanbracci, le gambe, sono sporchi di terra. La raccolta, la ricerca nel profondo, il fare mucchietti sono un gioco. Mamma Rita lavora in silenzio, ora mi è accanto, ora si allontana per andare ai sacchi. Sono certo che nel suo andirivieni recita qualche giaculatoria.  

Ribaltati con il vomere alcuni trimi, quanto basta per la raccolta della mattinata, la cavalla viene sciolta dai finimenti, le viene tolta la briglia con il morso, viene condotta e legata con la cavezza ad un grosso olmo. Bruca l’erba attorno al ceppo, muove la coda per scacciare i tafani. 

 Ora anche Toni e Gaetano raccolgono patate. Mi avvio lungo il tratto del rivale che porta al fondo del podere. Qui il passaggio è stretto ed ombroso: dal lato del fosso salici tozzi dalle basse fronde, dal lato del campo alte piante di granoturco. L’inoltrarmi nell’angusto passaggio suscita timorosa emozione. Cammino scalzo ma sono attento a dove poso i piedi perché, si sa, nell’erba scorre e fruscia la vita di tanti esseri. Fili di ragnatela s’impigliano nei cappelli. Rallento, guardo attorno: da dietro il grosso tronco del salice fa capolino un verde ramarro, osservo la sua mobile testolina; dalla stoppia, oltre il fosso, odo improvviso e fragoroso il frullo di un fagiano che s’alza in volo; più indietro, disturbata da tanto fragore corre furtiva una quaglia con famigliola al seguito; dall’alto giunge il ritmato gorgheggio di un cardellino.  

La metà di quel mio andare è la crosara di fossi, ove il fosso che costeggio incrocia un fosso più grande che segna il confine del podere ed ha, al di là, l’ampio erboso stradone del “Lazarin”.  

Alla crosara di fossi, anche a luglio inoltrato, c’è sempre acqua su un fondo melmoso.  Avvicinandosi si nota la rigogliosa vegetazione: giunchi, iris gialli, carici.  La poca acqua è ricoperta da larghe foglie di ninfea.  

            Sono fermo ed attento. Paveji stanno mimetizzati su sottili foglie palustri; sento tuffi di raganelle che saltano nell’acqua, una biscia striscia lenta per perdersi nell’altra sponda; svolazzano piccoli e fastidiosi insetti; una farfalla dalle ali arabescate posa immobile; nel tralcio di vite sta una coccinella.

Noto dietro un tronco il bussolotto che Gaetano usa per prelevare l’acqua per il verderame; lo raccolgo, scendo lungo la riva scoscesa, importuno il merlo che frugava nel molle terriccio e che, con fragoroso stridente chiacchiericcio, s’allontana. Prendo un poco d’acqua.  Mi siedo sull’erba, formo un pozzetto di terra argillosa, lavoro con le mani per avere del fango omogeneo. Come altre volte mi impegno, servendomi di stecchetti, nel costruire due fantocci di terra che poi, là nel cortile, diventeranno protagonisti di giochi fantastici.

Realizzo che si è fatto tardi, resto ancora un po’ in silenziosa contemplazione. Odo il mormorio degli alti pioppi del Canada disposti in lunga fila lungo il “Lazarin”. Sollevo lo sguardo, osservo incantato il lieve oscillare delle fronde più alte. La pittoresca immagine di quel filare è presente nella memoria come allora. Quei pioppi non ci sono più e tutto il luogo, qui descritto, è radicalmente mutato. Quei pioppi svettavano alti, solenni, visibili da lontano, in un paesaggio altrimenti, campanili a parte, uniforme e piatto.   

Torno che il carretto è carico fino alle sbarre e la cavalla già alle stanghe.   La Rita mi sorride, amorevolmente mi mette in testa il cappellino di paglia di riso, si allontana in bici. Gaetano ha ancora da fare: con cartina e tabacco moro confeziona accuratamente la giusta sigaretta che accende con accendino a benzina.

Ora sprona la cavalla sbattendo lievemente le redini, questa si protende, spinge con forza sulle gambe posteriori, smuove il carretto dalla cunetta.

 A me piace camminare di lato alla cavalla, osservo le sue larghe narici, il labbro pendente, l’occhio umido e tondo, il lento dondolare della testa al ritmo del passo, la bionda criniera.

Che animale paziente, laborioso, docile è la nostra cavalla!

Poco prima della svolta del cimitero il carretto si ferma, Gaetano scende, mi aiuta a salire ed a sistemarmi per bene sopra un sacco.  Riprende il cammino. Ora vedo il mondo dall’alto, tocco le fronde degli alberi, scruto la testa degli olmi per cercarvi qualche nido vuoto.

Siamo sulla strada del cimitero ed ora, sulla sinistra, vi è una fitta siepe di bosso e di “moraro”. Il sole è alto e caldo, il cappellino provvidenziale, la strada bianca e polverosa. I soli rumori sono quelli degli zoccoli della cavalla e del rotolio dei cerchioni del carretto.

Improvvisi, dal campanile di San Bortolo, giungono i rintocchi del mezzogiorno. Mi raffiguro il campanaro Bepi intento a tirare la corda nell’angusto vano del campanile; mi raffiguro, nello stanzone della canonica, Don Cornelio mentre estrae dalla veste il grosso orologio con catena per controllare se è mezzogiorno giusto.  Lui tiene alla precisione. Tanto più ora che ha, sopra la credenza, un mobile singolare, impiallacciato di noce, con listelli di radica sul frontale.

Dietro i listelli un tessuto nocciola dal filo grosso e dalla trama larga, di lato un vetro colorato fitto di scritte illuminate da flebili lucine, in basso pomelli girevoli. Quel mobile è magico. Da lì escono: parole, musica, romanze, preghiere e persino l’annuncio dell’ora preceduto dal cinguettio di un uccellino.  

Ma che importa che sia davvero mezzogiorno esatto come esige Don Cornelio! Per tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, credenti e non, il mezzogiorno è uno ed uno solo, quello della campana. A quel suono non pochi fanno il segno della croce.

Luigi Fasolin