“Il Pellegrinaggio”

Il Pellegrinaggio

Albeggiava quando per la via s’udì il rotolio dei cerchioni di un carretto trainato da un mulo. Di lì a poco un altro carretto, di diverso rotolio.  Pure un  rimorchio con   ruote di gomma trainato da una pariglia di cavalli grigi. Quei mezzi andavano verso Fratta e non portavano merci, né  barbabietole per lo  zuccherificio,  né animali. Su quei mezzi stavano   sedute, su grezze tavole di legno poste di traverso,  persone non più giovani con le vesti della festa: abiti scuri un po’ larghi, camicette rifinite con pizzo; in testa:  cappellini, fazzoletti per il capo, cappelli  di paglia. Tra loro tipi bizzarri, qualche   menomato. Stavano silenziosi, assorti, godendo della frescura mattutina, volgendo lo sguardo ad orti, a  vigne, alle rade basse case, allo scolo. Pregustavano momenti di letizia in quel giorno diverso. Alcuni, più giovani e di gamba buona, andavano a piedi lungo il ciglio della strada.  Tra loro  “Nini matto”, personaggio  ridente ed estroverso, noto a tutti perché  in quotidiana cerca di elemosina. In questo  suo  andare per vie e per corti:  cantava,  gridava parole di preghiera, dispensava burla e  benedizioni,  faceva ridere. Era benvoluto da tutti. Non si arrabbiava mai anche se vittima di qualche angheria. Si affiancò ad un carretto, lo seguì per un tratto intrattenendone i passeggeri, se ne andò per un sentiero scorciatoia.  

 Più tardi per quella strada sarebbero transitate: biciclette dai copertoni spessi;  cavalli galoppanti,  bardati con i finimenti della festa, al traino di eleganti calessi con sopra  i  signori del luogo.  In quegli anni  erano  già in circolazione rare e stupefacenti meraviglie della prima motorizzazione.  Così che nel tardo mattino di quel giorno potevi veder sfrecciare la  “Lambretta”,  la rossa e rombante “Guzzi” dal grande luccicante volano,  l’auto “Balilla”  nera ed austera, la  simpatica e  grigia  “Topolino  A”.   Transitava pure, ammirato da noi bambini, un grosso camion “Dodge”, lasciato, dalle truppe  di liberazione al termine della guerra. Quel camion, dall’alto muso proteso oltre la gabina di guida, aveva un cassone capiente con ai lati stretti  sedili di legno. In alto sul cassone, sorretto  da arcate metalliche, stava, ripiegato e tenuto da cinghie, uno  scolorito telone; per cui il viaggio sarebbe stato  possibile e confortevole anche in caso di intemperie. Oddio quanto potesse essere confortevole il viaggio in siffatto  mezzo lo lascio immaginare al lettore che deve  pure sapere  che:  il camion aveva sospensioni rigide, le strade erano ben fornite di buche, l’autista –  detto  Catullo el mericano   perché, avendo frequentato  truppe alleate lì di stanza,  esibiva qualche parola inglese e fumava sigarette “marca Camel –  aveva acquisito spavalderie militaresche. Quel mezzo portava alcune decine di persone, più giovani e gioviali  di quelle dei carretti. Tra loro pure  ragazzetti ed adolescenti. Chi era anziano ed avvezzo al traino di animali come avrebbe mai potuto salire su  quel  mezzo rombante e fidarsi di quell’autista?

La ricorrenza che muoveva tanta gente era l’annuale  pellegrinaggio al Santuario della Beata Vergine del Pilastrello di Lendinara. Ciò accadeva l’otto settembre,  festa della Natività della Madonna. La secolare devozione alla Madonna Nera ebbe inizio dopo gli eventi di una notte tempestosa del maggio 1509.   

Dopo Fratta quei mezzi arrivavano a Villanova del Ghebbo e da qui, dopo altri quattro chilometri, a Lendinara.  La fermata per la sosta era  lungo la strada, ora Riviera del Popolo, che costeggia il canale Adigetto. I pellegrini scendevano ed a piccoli gruppi si avviavano  verso Santa Sofia e da qui nella via del Santuario. Sul sagrato venivano accolti da giovani monaci dai candidi sai che sorridenti e disponibili all’aiuto, invitavano a varcare l’alto portone, sulla sinistra, onde accedere al chiostro,  al refettorio, al salone del pellegrino.   Qui potevano andare ai servizi;  depositare in un retro locale i sacchetti di iuta o  sporte di carice con le cibarie personali;  beneficiare di frugale ristoro. A tutti veniva offerta  una scodella di latte, biscotti, pane, marmellata. I gruppetti fraternizzavano fra loro. Ci si rallegrava per il nuovo incontro con altri pellegrini conosciuti negli anni precedenti. La medesima fede, la misera condizione, l’umiltà rendono le persone più  solidali e  amichevoli.  Costoro erano i più diseredati e, tra loro,  persone menomate  che portavano dignitosamente la  loro croce. Coloro  che andavano a Lendinara  con mezzi propri ed in ora più tarda   non usufruivano del  refettorio.  Nel paese vi erano stalli per animali e biciclette ed altri  luoghi di ristoro nonché bancarelle con cibarie. La maggior parte della gente che, in quel giorno, arrivava a Lendinara era interessata al notevole, secolare e  variegato mercato più che al Santuario. A questo comunque sarebbero andati, ma più tardi o nel pomeriggio.  Nessuno mancava ad un breve incontro con la Madonna nera, diversamente se ne sarebbe sentito in colpa. E per lungo tempo.   

La giornata al Santuario si svolgeva secondo liturgie,  riti, modalità  e tempi noti ai devoti  pellegrini.   Dopo la sosta al refettorio,   ove ognuno si tratteneva il tempo a lui  necessario, si entrava  nel sacro edificio. Qui ogni pellegrino, fino alla messa solenne,  era libero nelle scelte.  Così vi era: chi si genufletteva restando a lungo in raccoglimento personale, chi recitava le orazioni del mattino, chi contemplava la luminosa e lontana nicchia ove intravedevi la piccola   Madonna, chi si poneva in attesa per il sacramento della riconciliazione, chi partecipava alle messe celebrate nella cappella della fonte, chi ascoltava il racconto dei fatti ripresi dalle pitture parietali.  Solo taluno, essendo i più  analfabeti, leggeva in solitudine salmi da libricino tascabile. Tutti però – ognuno a suo  modo ed in silenzio –  pregavano  per rendere grazie o per chiedere grazia.   Una persona di fede che abbia attraversato gravi pericoli o patito sofferenze ha maturato in sé il convincimento di  aver beneficiato di presenze protettrici trascendenti. Queste presenze, il popolo di Dio di quel territorio le identificava primariamente: nell’Angelo Custode, nella Madonna Nera di Lendinara, in Sant’Antonio da Padova (qui pure invocato e  presente in nicchia a sinistra dell’altare maggiore) ed infine in qualche anima pia di caro defunto.   

Nel  volgere di alcune ore il Santuario  si riempiva dei tanti pellegrini. Va detto che il   settimanale della diocesi “La settimana cattolica” presentava doviziosamente la ricorrenza e richiamava le parrocchie ad attivarsi per una  partecipazione comunitaria, sia pure ristretta.  I carri per il trasporto erano, per l’appunto,   resi disponibili da parrocchiani di buona volontà qui nel ruolo  di carrettieri,  di accompagnatori e di persone caritatevoli. Per il continuo afflusso andava a formarsi,  lungo la navata di destra, una fila fitta che lentamente muoveva verso l’abside.  Nello stretto deambulatorio che è sul retro di questa, inizia  la scala marmorea che porta  alla nicchia della Beata.    

La nicchia è in alto, sopra un altare a muro al centro dell’abside, luminosa e splendente nel suo contenuto di devozione e di trascendenza. La nicchia è in una cornice  marmorea sorretta da un grande angelo, altri angeli più piccoli sono di lato ed in alto. Sull’altare a muro a base della nicchia,  sul sottostante altare maggiore, sulle balaustre della scalinata, tanti fiori  bianchi, come il manto della Vergine. L’avvicinamento a quel piano elevato richiede pazienza per la gran affluenza e  tolleranza per l’indolenza di qualcuno.  E questa è pure comprensibile data la compassionevole umanità lì presente. Ognuno anela a raggiungere   la Beata Vergine,  anche chi ha penalizzanti  menomazioni corporali e deve contare sull’aiuto altrui. Avviene, talora, che chi  ha raggiunto il termine della scalinata manifesti la propria commozione.  È estasiato dall’essere vicino a quella Madonna prodigiosa, di cui tanto ha sentito raccontare e in cui ripone, fiducioso, nuova speranza.  Incantato fissa quei due volti di insolito colore che risaltano nel prezioso bianco del manto. Quello di lei è dolce, sereno, giovane. Quello di lui esprime la gioia e la spensieratezza di un bimbo in braccio alla madre. Entrambi non rivelano segni di turbamenti ma effondono una sensazione lieve e consolatoria. Entrambi portano in capo una corona con gemme e ti sovviene mestamente l’altra  corona che cingerà la testa di quel bimbo al rivelarsi  Figlio di Dio. Ti concentri sui volti e,  poco sotto,  sulla manina benedicente del bambino. In lui e  in quella  manina i misteri che sono a fondamento della nostra fede. Come non meditare sul mistero di Maria contemplando i  tanti  suoi volti che la fede ci presenta:  bambina stupefatta all’annuncio dell’angelo, mamma dolente ai piedi della croce,  come recita lo “Stabat mater”. Chi è vicino a quella Madonna rimane  in estatica e devota  contemplazione. E lì resterebbea lungo se non fosse che altri borbottano e premono dal basso. Ci si allontana a malincuore, ci si ripromette  di tornare  ancora. Un ultimo segno di croce, l’invio di un ultimo bacio di congedo,  lo sguardo ancora lì fisso ed  a  malincuore si scende il primo gradino.

Quanti erano dietro avevano ove volgere attenzioni compassionevoli. Appesi alla parete dell’abside stavano innumerevoli ex-voto. Oggetti comuni ed altri di tempi lontani. Oggetti evocativi di disgrazie e di menomazioni. Oggetti   con cui il donatore ha inteso far memoria di eventi miracolosi   concernenti o lui medesimo, o persone a lui care,  o fatti cui aveva assistito, o anche  apparizioni.   Gli ex-voto  sono  innanzitutto segni di   fede e di ringraziamento.  Chi ha voluto darne testimonianza del loro personale significato  ha, quasi sempre, lasciato donazioni per la conservazione del  Santuario e per le opere caritatevoli dei benedettini. Così alla parete: stampelle, parti di protesi, schegge di obici, frammenti di  armi, giubbe perforate, bastoni, roncole,  arnesi da lavoro. Poi  ancora: cuori argentati su formelle con dedica, targhe con brevi descrizioni,  immagini sacre, pannelli descrittivi di eventi,  ingenui disegni  di scene prodigiose. In teche oggetti più piccoli ma  più preziosi. L’esposizione degli ex-voto proseguiva  anche lungo la  parete opposta dell’abside perché  tanti davvero furono i fatti prodigiosi che il popolo ha ritenuto  meritevoli  di  testimonianza e di concreta gratitudine. 

  Credo di non aver mai assistito per intero alla messa solenne: sarebbe stato pretendere troppo da un bambino. Avrò tirato la giacca a mio papa per uscire in fretta da quell’assemblea da  cui,  se non fosse  stato per la Rita cui doveva dare conto,  si sarebbe volentieri tenuto lontano  Di quella messa  – cantata in latino ed officiata dal Vescovo di Adria alla cui diocesi Lendinara apparteneva – conservo quindi memoria solo dell’ambientazione e di momenti significativi. L’ingresso  ieratico  dei chierichetti e dei bianchi monaci  in processione; il greve  attacco dell’organo; l’odore dell’incenso che si effondeva al pendolare del turibolo, l’aspersione del celebrante benedicente nel procedere lungo la navata,  i grossi ceri portati dagli adepti della Confraternita,   il canto del Credo con l’intercalare della genuflessione collettiva, gli scampanellii al Sanctus, la distribuzione dell’eucarestia alla balaustra, il canto del  Magnificat prima della conclusiva benedizione quindi  il canto finale di tutta l’assemblea del  “Mira il tuo popolo”. L’omelia era quella desiderata dall’assemblea, ossia:   enfatico panegirico alla Beata Vergine e  racconto delle  pestilenze e delle alluvioni  ove Ella si era prodigiosamente manifestata. A quella gran messa partecipavano, per dovere di istituzione e di censo, le autorità locali,  i notabili,  i signori del luogo, i rappresentanti di associazioni.  Erano lì raccolti anche tutti i nostri umili pellegrini. Quella era una messa particolare per gente non comune per l’eterogenea partecipazione:  una   moltitudine  di  un popolo umile riverente le persone importanti  che erano nelle file davanti.          

La messa finiva che la campana aveva già battuto “la mezza”. I fedeli anziani erano visibilmente provati, alcuni avevano da lagnarsi per la prolissità dei riti, in generale vi era sollievo e voglia di   pausa ristoratrice. La gente muoveva sulla via del Santuario per disperdersi in altre vie, andare nel centro storico od oltre l’Adigetto, nel quartiere San Biagio.  I nostri pellegrini rientravano nel chiostro del monastero, recuperavano le sporte con i viveri, s’accomodavano alla meglio lì o fuori, nel prato che è sul retro dell’abside verso l’ombroso viale della strada per Rovigo. In quelle sporte avevano posto, la sera avanti, frugali cibarie: pane biscotto, formaggio, alcune fette di salame, un uovo sodo e taluno un fiaschetto con graspia. Data la stagione la frutta abbondava e lì, nel chiostro, grazie all’altrui beneficienza, distribuivano: uva, susine, fette di anguria, pere e brocche d’acqua. Il cibo condiviso e la vicinanza mettevano le persone in comunione: ognuno si sentiva prossimo per il vicino e lieto di offrire vivande. S’udiva ovunque un intenso  chiacchiericcio intercalato da sonore risate. Già perché qualcuna, più gioviale e vivace,  si avventurava nel racconto di amenità che suscitavano ilarità ed invogliavano altre a dire la propria. Insomma regnava in quei locali, solitamente austeri e silenziosi, un conviviale  contagioso buonumore. 

 Lungo la via del Santuario si disponevano, in quei giorni, ordinate e sobrie bancarelle dal bianco spiovente telo per il riparo. Chi le avesse potuto guardare dall’alto del campanile avrebbe visto  due bianche file comprese in altre due, di diverse  tonalità di rosso,  dei tetti e dei comignoli.  In mezzo la striscia di ciottoli di granito grigio del fondo strada.  La mercanzia  esposta era tradizionale in quella via, unica nella fiera,  di buona qualità. Le bancherelle prossime al sagrato mostravano  materiale attinente  al Santuario ed alla devozione: oggettistica sacra, souvenir, cartoline, libricini illustrativi, immagini ed immaginette, riproduzioni della Madonna Nera, statuine di Sant’Antonio, rosari, catenine, colane, bizzarri sopramobili, bigiotteria varia. In quelle più avanti:  biancheria per la persona  e per la  casa,   pizzi, fazzoletti e fazzolettini, foulard, tovaglie, lenzuola, coperte, oggetti d’arredo e merceria di ogni genere,  di qualità ed a buon prezzo. Insomma un’esposizione attraente per le pellegrine.  A due, a tre, tenendosi a braccetto girovagavano,  interloquivano, chiedevano.  Pur disponendo di  poche risorse   ci tenevano ad acquistare qualcosa  a  ricordo della giornata.  E così avveniva che, dopo averne contrattato il prezzo, come d’uso da queste parti,  ponessero  in borsa  un cartoccio avvolgente il bene acquistato. Si allontanavano soddisfatte, parlottando l’un l’altra,  convinte  di aver fatto un buon affare. Tra quelle bancarelle non  vi erano uomini. Quelli più anziani e debilitati, solevano imboccare il viale di lato al campanile ove all’inizio  c’era un’osteria con tavoli e seggiole sparse sotto un’ampia e  bassa pergola. Qui era sempre tutto  pieno: per qualche posto vi era da attendere pazientemente all’ombra dei platani del cortile. Accomodatisi al fine  ordinavano il bere,  preparavano il necessario per una   fumata, continuavano a  raccontarsi ciance,  burle e malizie.  Per il fumo vi era: chi ricorreva alla sigaretta da lui confezionata al momento, chi approntava la pipa ponendo il tabacco nel fornello di schiuma con cura e la giusta pressione, chi ricorreva a sigarette “alfa” o “nazionali”, ossia le meno costose.   Per il bere, ordinavano in comune del vino rosso  servito nei  boccali ricurvi di vetro con bollatura laterale di piombo.  Di rado,   quando si era in compagnia, vi era chi  optava per la gazzosa o per il chinotto o per la birra.  I più arzilli ed intraprendenti della comitiva non sostavano all’osteria ma frettolosamente si disperdevano a curiosare lontano per le vie del mercato fino alla torre dell’orologio ed alla piazza centrale. Nel piazzale di Santa Sofia, ove era il luna park,  in quell’ora di primo pomeriggio,  tutto era fermo,  silente, irreale. Molti dei nostri pellegrini, quelli provenienti da più lontano, partivano nel primo pomeriggio: Per gli altri il ritrovo era   fissato alla cappella della fonte.

 Quella cappella è ampia e  luminosa.   Vi sono file di banchi e lateralmente sedie. Al centro la vasca del bagno  con, sul bordo,   angioletti con brocca versanti acqua.  Sul fondo l’altare con dipinto della Madonna, sulla sinistra il volto di angioletto alato dalla cui bocca esce l’acqua della fonte.   Alle pareti i dodici grandi dipinti che illustrano i miracoli della Vergine del Pilastrello. All’entrare lì, da bambino, mi sorprendeva l’esservi al centro quella gran vasca e l’udire  il sommesso gorgoglio dell’acqua che scorre. Chissà forse mi è rimasto da allora il senso di benessere che provo all’ascoltare i gorgoglii delle fontane ed all’osservare le punte danzanti dei loro zampilli. Il fissare lo  scorrere dell’acqua induce a meditare  sul tempo della vita e sulla trascendenza. I nostri pellegrini entravano nella cappella alla spicciolata, restavano in silenziosa attesa, pregavano, aspettavano l’incontro con il Padre abate e la  recita del rosario. I dodici dipinti dei miracoli della Madonna , lì esposti, attraevano gli sguardi, alimentavano nuove curiosità, guardavano stupefatti i fatti miracolosi lì rappresentati,  nutrivano  sentimenti di curiosità e di devozione.  Nella cappella, ed in particolare in quel pomeriggio, si compivano gesti antichi volti ad ottenere grazie:    l’immersione nella vasca degli arti menomati degli storpi, la bevuta dell’acqua della fonte.  Entrambi gli atti, inusuali in una chiesa, facevano riflettere: il primo era compassionevole per la visione di una sequela di umanità deforme; il secondo pareva un atto scaramantico.  Alla fonte il transito era costante ed ordinato. Vi era anche chi si premurava di riempire una bottiglietta per portare quell’acqua a qualche persona cara  non in salute. Sobrio e disciplinato era l’atto dell’immersione che avveniva con l’assistenza di volontari e di monaci. Ogni storpio aveva una sua propria disabilità che viveva con dignità e con serenità nella gioia del momento.  Menziono solo due persone menomate di cui conservo memoria avendole viste altrove ed un po’ conoscendole.

 Dalla porta laterale, comunicante con il salone del pellegrino, uscì un uomo basso, tarchiato, sui cinquant’anni, sorridente, sguardo in alto, saltellante sul piede destro essendo il sinistro innaturalmente piegato all’interno. Si guardò attorno,  si sedette sul bordo della vasca poggiandosi con la mano alla testa marmorea di  un angioletto, volse il bacino a sinistra, immerse il piede deforme ed  iniziò a ruotarlo nell’acqua. Stette lì stupito che tanti  guardassero il  suo piede e compiaciuto dell’ondulare dell’acqua.  Era visibilmente lieto di essere lì e desideroso di restarvi oltre. Stette alcuni minuti quindi gli si avvicinò un uomo a lui somigliante con in mano un asciuga piedi ed una stampella, lo sollecitò bonariamente ad uscire, lo storpio ubbidì ed in un baleno scomparve oltre la porta donde era venuto. Non tutti i successivi bagnanti ridevano come costui:  chi  faceva  smorfie di riluttanza, chi  doveva essere sollevato, chi strillava. Il vedere tanta umanità deforme è esperienza che turba e fa riflettere.  Il transito di persone storpie alla vasca del  bagno continuò, tra loro pure donne che raccoglievano  acqua nella cavità delle mani per  fare abluzioni.   Tra le donne anche Elvira – vicina di casa –   zoppa – mi pare per un vizio congenito all’anca – piccoletta, simpatica, operosa, dinamica ed in buona salute. L’Elvira andava d’estate per le stoppie a spigolare e per campi in cerca di avanzi di raccolto. Nelle altre stagioni andava a cercare provvidenza, per sé e le sorelle,  nelle famiglie dei dintorni.  L’Elvira indossava un grembiule blu con fiorellini abbottonato sul davanti, portava  sui tanti capelli grigi un fazzoletto nero arabescato che avvolgeva un viso grinzoso e scurito dal sole,  calzava  zoccoli di legno. Si bagnò più delle altre  e con più esuberante convinzione.  

Prima del Santo Rosario il Padre abate usava rivolgere, a nome della comunità monacale,  parole semplici di vicinanza, di compiacimento, di ringraziamento. Intratteneva  parlando dell’Adige, le cui acque  avevano invaso più volte quelle terre, raccontava dei  fatti prodigiosi  concernenti  giovani donne: una resuscitata durante il suo funerale, un’altra data per dispersa ritrovata viva, un’altra ancora protetta dalle insidie di malintenzionati. Questi racconti si imprimevano in quelle menti  semplici e timorate. Infine la recita del Santo Rosario dei misteri gloriosi. La preghiera conclusiva – il Salve Regina – bene esprime il popolare  umile sentimento di speranza e di  richiesta di intercessione alla Madre di misericordia, rappresentata in quel santuario dalla Madonna nera.

 “Salve Regina • 

Madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, esuli figli di Eva;
a te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime.
Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria. Amen.”

Alla spicciolata i pellegrini  uscirono per avviarsi ai mezzi che li avrebbero riportati  a casa.  Anche chi era arrivato a piedi era ora fiducioso di trovare un angolo di carretto per un ritorno meno faticoso ed in compagnia.

I più che andavano a Lendinara, in quel giorno, era a motivo della grande fiera, non già del Santuario. Da quello sarebbero comunque passati per un atto attinente più la tradizione che la fede. Non si può andare a Lendinara e non fare visita alla  Madonna Nera e non bere alla sua fonte prodigiosa!  Dai tempi secolari  in cui la Beata Vergine nera era divenuta la Santa Patrona del paese  lì si teneva una rinomata ed apprezzata fiera. Durava la settimana  a cavallo dell’otto settembre ed attirava gente da lontano anche per la quantità e la qualità dei prodotti esposti;   taluni di lontana ed esotica provenienza. La fiera era insomma un grande, eterogeneo, pittoresco mercato.  Il percorso che da piazza del Risorgimento, sottopassa la torre dell’orologio, affianca l’Adigetto, prosegue per piazza San Marco, quindi per il piazzale di Santa Sofia ed  arriva alla via del Santuario era un’ esposizione ininterrotta di  beni di ogni genere:  di consumo, di utilità, d’arredo, di vestiario, di tessuti, di medicamento, di chincaglieria.  Ovunque un andirivieni fitto e lento di gente tra: calpestii, brusii, il vociare degli imbonitori, il gracchiante richiamo musicale di lontano grammofono, i rintocchi dell’orologio.   In quella calca festaiola prevalevano di gran lunga gli uomini essendo giudicato  non decoroso ed inverecondo per le donne il girovagare  per  fiere.  Tali  erano le usanze e le credenze del tempo.  Nell’erboso ampio piazzale del duomo di Santa Sofia – ove è l’altissimo  campanile con sopra un angelo – era allestito il luna  park con: giostre, attrazioni, stand, baracconi misteriosi con all’esterno mostri e figure orripilanti di cartapesta,  il tendone del circo, recinti e gabbie di animali esotici. Qui pressati lungo la balaustra stavano bimbi incantati e divertiti da un  clown.  Nel  tratto di via che attraversava il piazzale, le bancarelle mostravano solo due generi di merci, dolciumi e giocattoli.  

Mamma Rita andava al Santuario più volte l’anno ma non in quell’affollata ricorrenza. Di buon mattino, in bicicletta, da sola o in compagnia della cugina Pierina. Si confessava, assisteva alla messa, restava oltre per una preghiera personale, saliva i gradini per un incontro ravvicinato con la diletta Vergine Nera, di cui conservava, nel comodino,   sacra immagine.  Dopo la visita si portava al vicino mercato coperto lungo l’Adigetto, per acquisti di beni per la casa e di bontà alimentari. Per me qualche leccornia. Ero  il più piccolo della famiglia: il mio stato dava privilegio  e qualche invidia, non già dei fratelli ma dei  coetanei vicini.  Anche mio padre andava a Lendinara più volte in un anno. Teneva ad andarci anche in quel giorno ma non per la Madonna Nera, anche se non mancava di fare lì una sosta.  Mio padre non disdegnava la confusione, anzi quasi la cercava,  perciò  traeva diletto dal frequentare luoghi affollati,  quali le fiere. Era curioso, gli garbava essere sorpreso e lui stesso sorprendere.  Così di tardo mattino, o di primo pomeriggio, partiva gagliardo, tirato a festa, con cappello di panama e fermaglio al pantalone destro in modo che il lembo dello stesso non s’impigliasse nella catena della bicicletta.  Ed io ero con lui sul bastone; ero scomodo ma sopportavo volentieri perché la corsa inebriava e avevo  voglia di fiera.   È stato mio padre Gaetano che mi ha condotto per la prima volta al Santuario e mi ha fatto conoscere  la Madonna del Pilastrello. Quando partivamo  di tardo mattino è  perché  aveva una sua mira: andare alla trattoria d’angolo della via del Santuario per gustarne le saporite specialità: “la corradina” o la trippa in umido con fagioli. Ricordo che si scendevano alcuni gradini, il locale era ampio, basso di soffitto,  le pareti e le travi di legno scuro, il bancone di formica (laminato plastico) verdognola, alle spalle leggere scaffalature con ripiani di vetro e listelli di specchio.  Sui ripiani caraffe, bicchieri, bottiglie di liquori dalle etichette esotiche.  Ovunque l’acre odore del    fumo e puzze di  cucina. La gente era  tanta, allegrotta, accomodata pure nel piccolo retrostante cortile. Gli inservienti,  con cappello da cuoco e grembiule, affannati nel portare vassoi, vivande, boccali di vino. Non so cosa  mangiassi io: so con certezza  che sarà stato cibo gradito perché diverso dal solito e perché avevo fame. Entrambi eravamo contenti e complici per la convivialità e per la goduria che infondeva l’ambiente.  Dopo aver mangiato lui si intratteneva con personaggi pittoreschi  per ciarlare di bazzecole e di amenità. Al fine si usciva, si percorreva, a ritroso e frettolosamente, la via del Santuario  e si era nelle vie della fiera. Di questa non  ritengo di doverne  scrivere per non annoiare e per non divagare dal  tema. Solo dico  di ciò che più  allietava mio padre nelle  fiere importanti e  lì, a Lendinara, non mancava mai.

Gaetano, dopo avermi comprato qualcosa con cui trastullarmi, andava lesto verso un angolo  di piazza Risorgimento ove sostavano quelli delle “canzonette”. Era l’attrazione cercata e preferita da tanti uomini  di mezza età.  Qui restava a lungo perché lo  spettacolo era vario, divertente, piacevole, partecipato e coinvolgente. Sarebbero  bastati  un fisarmonicista ed un cantante ma a Lendinara c’era di più ed il meglio del genere. Il lettore deve immedesimarsi in quel pubblico costituito da gente  che aveva subito patimenti per anni, segnata da  lutti,  indigente, repressa a lungo, ora  desiderosa di  vita nuova, di libertà  e di speranza  Si era nel dopoguerra:  quella generazione era cresciuta nel ventennio della dittatura conclusosi con  un’assurda abominevole  guerra. Ecco la musica,  le canzoni, lo stare insieme erano medicine salutari.  Si cercava la festa,  la comunanza, l’evasione. La gioventù andava numerosa a ballare. Per evadere vi era poi  la novità più stupefacente e fantastica:  il cinema, specie quello americano.

Quei musici da “canzonette” esibivano oltre l’immancabile fisarmonica: la batteria, la tromba,  il violino. Oltre al cantante, che era una giovane signora simpatica, briosa  e civettuola, un giullare dal fantastico costume con campanellini ad intrattenere tra una canzone e l’altra ed a proporre colorati e ricercati foglietti con l’oroscopo. Anche di sogni necessitava quella gente disposta a semicerchio ed a rispettosa distanza dagli artisti!  Chi  era dietro sentiva ma non vedeva, restava comunque lì ammaliato dalla musica e dal canto.  I fortunati delle prime file applaudivano, ridevano, facevano commenti, agivano da spalla al giullare, qualcuno più audace si prestava alle maliziose allusioni  della cantante che, indignata, faceva svolazzare l’ampia gonna. Tanto si adoperavano quegli artisti allo scopo di dare piacere e di indurre gli spettatori  a lasciare l’obolo in un nero cappellaccio lì a terra. La musica s’udiva in tutta la piazza e la gente che di là transitava era attratta a quell’angolo come le mosche al miele. Gaetano non sarebbe più andato via ora che aveva raggiunto la prima fila ed era vicino ad un conoscente ingenuo e bonaccione.   Io restavo in disparte dietro, seduto su un gradino del palazzo, in mano quanto poco prima Gaetano mi aveva comperato per  trastullo. Ero abituato ai tempi di mio padre, di indole ero tranquillo e paziente, sapevo distrarmi anche con poco ed in assenza di questo con il vagare della testa.  Lì lui restava a lungo e si faceva tardi: andai a cercarlo per tirargli il lembo della giacca ma non volle perdersi una replica di “la violetera” che quelli eseguivano magnificamente. Tutti applaudirono calorosamente.

Imbruniva quando ci avviammo allo stallo per riprendere la bicicletta. A quell’ora i primi dei   pellegrini erano prossimi a casa, gli ultimi ben oltre il campanile tronco dell’Arcangelo Michele di Villanova. Tutti avevano cantato e riso fino alla stanchezza.  Nondimeno la Maria Fiore  ritenne di intonare nuovamente “me compare Giacometo” – la filastrocca del galeto per intenderci – e gli altri di quell’ultimo carretto  la seguirono.

                                                                                                      Luigi Fasolin